Perugia, 2001.
Marta non ha neppure vent’anni. Casa è vuota e lei ha appena concluso una delle solite abbuffate. Una di quelle con cui ha imparato a placare l’ansia, sedare gli attacchi di panico che da tempo non le danno più tregua.
Il cibo, il suo miglior tranquillante. È l’unico a vincerle.
Non c’ha mai pensato, almeno non fino a quel pomeriggio, di poter vomitare fuori tutto. Tutta l’angoscia e la pesantezza che le opprimono il petto senza farla respirare. Le calorie non sono che un pretesto per gettare via la disperazione, il dolore, le paure che la divorano dentro.
C’è un mostro più grande di lei, insostenibile, che governa ogni muscolo, che chiede di uscire. Vomitarlo le sembra l’unica, illusoria, soluzione.
Marta va in bagno, chinata oltre il bordo del wc, spinge due dita in gola.
Una stretta allo stomaco, un conato, un brivido la percorre dalla testa ai piedi. Spalanca la bocca, si sforza ma non esce nulla. Spinge ancora. Ci prova. Ci riprova. Afferra lo spazzolino dal bicchiere e lo infila giù, in fondo.
Un’altra stretta, ma niente.
Quel giorno va così. Marta si tira su, dritta, guarda l’immagine di sé riflessa allo specchio e si fa schifo. Si sente solo più in colpa per aver mangiato tanto e non essere stata capace nemmeno di vomitare.
Nella testa, però, le rimane un qualcosa. Un pallino. Fisso, piantato. Un’idea che diventa un martello, che picchia sempre più forte, tanto che i giorni successivi ci riprova.
Una, due, tre, tante volte. Marta ha tutta la gola arrossata, le fa male, brucia ma non le importa. Lo vuole. E allora, prima con quello spazzolino, poi con un cucchiaio, alla fine ci riesce.
Da lì, da quel gesto, da quell’istante inizia l’inferno. Dodici anni di disturbo alimentare. Dodici anni scanditi dal rituale: mangiare e vomitare. Mangiare fino a scoppiare. E poi espellere, buttare fuori, depurare. Liberare.
Ogni minuto, per dodici anni, è in funzione di questa catena malata, una gabbia in cui tutto è ovattato, dove uno sfogo malsano sembra il solo espediente ai problemi, al male, all’inadeguatezza.
È il suo malefico modus vivendi in una vita che non riesce a viversi.
«Ad oggi io non so perché lo facessi… la causa precisa non la so. Sicuramente di base avevo una percezione distorta della mia persona. Mi sentivo sbagliata, incapace, inetta, come se non meritassi niente, da sempre. Ma davanti alla malattia tu non conti, è una cosa più forte di te. È un volere malato… non mi lasciava decidere».
Sono proprio quelle due dita in gola a stordirla e liberarla. Marta lo deve fare a tutti i costi, a ogni pasto e più si sazierà, più le verrà facile vomitare. Quando il resto la tormenta, lei si abbuffa, sa di poter aprire la dispensa e divorare ogni cosa. Marta ha bisogno di quella sensazione, ha bisogno della leggerezza che prova una volta svuotata.
In quei dodici anni cambiano frequenza e impegni da far combaciare, periodi in cui Marta lavora, va a lezione, giorni in cui non ha nemmeno i soldi per comprarsi il cibo. Arriva a indursi il vomito anche dieci volte al giorno, il dottore le prescrive psicofarmaci, lei non li prende e se lo fa è solo per dormire. Dormire e smetterla di stare così male. Ma poi, ogni volta, non resiste. Ogni notte, verso le quattro di mattina, attende l’apertura dei forni per mangiare e vomitare, fare l’ultima abbuffata e disperdere il rumore dei conati nel silenzio della città.
«Anche fisicamente era una cosa straziante. Avevo sempre la faccia gonfia, i segni dei denti sulle mani… una volta mi si ruppero tutti i capillari degli occhi, mi uscì parecchio sangue, così mi portarono al pronto soccorso. Il medico mi disse assolutamente di non farlo più, almeno per il momento, per non rischiare emorragie… e invece lo feci subito, appena tornata a casa».
Cominciano i tentativi di comunità, le cliniche, i TSO, sei mesi a Todi, due a Chieti, poi Foligno e Spoleto. Dentro e fuori dalle strutture, dentro e fuori dalle terapie.
Nel frattempo Marta riesce a portare avanti alcuni progetti. Studia, si laurea, gioca a calcetto, ha qualche relazione, eppure tutto è offuscato, tutto è sommesso. I ricoveri non servono che contenere, limitare lo spazio che la malattia si prende. È lei che sovrasta, che smorza la gioia, ruba i sentimenti.
«Dopo sette, otto anni speravo solo di diminuire la percentuale di ciò che prendeva la bulimia, non di eliminarla, per me era impossibile, era come lasciare una parte di me. Faceva parte di me».
Nel periodo di autolesionismo, Marta viene spesso trovata in un lago di sangue. Più volte tenta di tagliarsi le vene sebbene non voglia morire. Vuole solo che il dolore fisico sovrasti quello emotivo.
“In ospedale – pensa – per qualche giorno non vomiterò”.
A scoprirla e soccorrerla sono in genere la madre e la sorella più piccola.
La situazione in famiglia non è più gestibile. Marta non è gestibile e i genitori si trovano costretti a dover fare il passo più azzardato, quello che non vorrebbero nemmeno pronunciare ma che sono costretti a compiere.
Hanno altri due figli da proteggere.
«Quella mattina in spiaggia, era presto, saranno state le sei. Avevo ancora il pigiama addosso… seduta in riva al mare, rivolta verso il mare… sentii dei passi avvicinarsi. Non so perché, ma sapevo già fosse mio padre. Si sedette dietro di me e mi disse: “mi dispiace, ma non ho altra scelta che cacciarti di casa”. Mi uscì una sola lacrima, piansi dentro, poi mi alzai. Tornai in campeggio, presi lo zaino e me ne andai».
Marta allora va via, va verso la morte, va a casa di un tossico e lì, lo ammette, rischia la vita. Tocca realmente il fondo, che più fondo di così esiste solo il vuoto, il nulla, la fine. E questo da una parte l’aiuta, l’aiuta a sentire più facilmente il piacere. Perché quando la malattia non prende tutto lascia spiragli in cui entra la luce. Le parole di un’amica, i messaggi di una madre. È proprio quest’ultima a insistere affinché Marta tenti un concorso di lavoro per la Spagna. Ci sono dieci posti. Marta potrebbe farcela e infatti arriva settima.
È all’estero che qualcosa cambia. Sola, in un Paese straniero, succede nuovamente di tutto ma del buono le viene incontro.
Per puro caso decide di prendere un cane, è un meticcio dal pelo nero. Lo chiama Piccolo.
Fin dalla prima volta che lo stringe tra le braccia, Marta avverte un’energia che non ha mai provato in vita sua.
«Mi sono sentita importante, mi sono sentita amata. Sapevo che i miei genitori mi volevano bene, però non lo sentivo. Invece il cane lo percepivo addosso, era invadente. E prendendomi cura di lui ho iniziato a capire che c’era del bello in questo».
Oggi io e Marta siamo sedute sul divano di casa sua. Tra noi c’è anche lui, Piccolo. Stiamo sfogliando delle vecchie foto, istantanee in cui Marta ha gli stessi capelli lunghi e biondi di quando era bambina.
Oggi di anni ne ha trentasette. Ne sono passati cinque dall’ultima volta che ha vomitato.
Sembra facile ora parlarne. Ora che ha imparato ad amare e ad amarsi. Ora che quegli occhi grandi e verdi le sono tornati a brillare ogni volta che ride.
«È difficile immaginare la mia vita senza malattia, purtroppo ha invaso completamente ogni secondo di quei dodici anni. La speranza che posso trasmettere ad una ragazza col mio stesso disturbo è legata al fatto che io sono un esempio reale, non detto da uno studio scientifico… l’ho vissuta e ne sono veramente uscita. Cercherei in tutti i modi di farle provare la gioia, il piacere per qualcosa… non di parlare sempre delle calorie, dei pesi, ma di riempire il posto del dolore con altro di più forte… quando tu dai amore, ti ritorna. Anch’io, forse, se l’avessi capito prima avrei gioito di più, avrei sperato maggiormente, combattuto di meno i demoni quotidiani e sicuramente sarei meno ferita. Tutto questo però mi ha lasciato una forte empatia verso chi soffre, mi ha mostrato la potenza della mente… dobbiamo averne rispetto».
Così, certe sere, quando fuori fa talmente buio che vorresti solo annullarti, ricorda invece di aver cura di te. Ricordati di restare la cosa più importante da custodire.
E se ti piove dentro, non convincerti di non essere abbastanza. Tieni a mente che tutta quell’acqua ha il dono di nutrire. Che mentre bagna, tu rinasci. E impari a sentire.
A volte sai, le cose belle devono attraversare la tempesta prima di risplendere. Non è che non arrivano, fanno solo tardi.