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Nulla che non va

Guardati. Fermati un secondo e guardati davanti a quello specchio.
Succede, a volte la vita lo fa, ti mette in ginocchio senza nemmeno chiedertelo. Non ci dev’essere per forza una ragione o una colpa, magari lo fa soltanto perché è così che deve andare.
Guardati. Sei tu. E respiri. Respira. Sei vivo.
Accetta qualsiasi cosa sia accaduta e renditi conto che l’unica soluzione che hai è quella di affrontarla. A testa alta. Sfidarla. Esiste un trucco quando pensi che tutto ti stia remando contro. È remare ancora più forte. Provare a riuscire in quello che credi di non essere più capace di fare. Nonostante tutto, nonostante qualcuno ti voglia convincere che sia impossibile, che senza un piede o due, forse non ce la fai a rimetterti dritto. Tu alzati. E provaci a tornare a saltare. A tornare a correre. Che solo così la inganni la vita. E cominci a volare.

La partita del weekend è finita da un po’. Alla Fondazione Santa Lucia di Roma, piano -1, le carrozzine hanno smesso di fischiare sul parquet della palestra. I tabelloni del punteggio sono spenti, gli spalti vuoti. Se ne sono andati tutti. Tutti eccetto Matteo. Tutti eccetto me.
Noi siamo rimasti lì, al centro di una delle due metà campo, seduti nella penombra. Quasi che in quel barlume non potesse trovarci nessuno.
Matteo Cavagnini ha una palla da basket fra le mani. Porta addosso la maglia del club, quello per cui milita da nove anni, quello di cui è diventato capitano.
Vederlo giocare insieme ai compagni mi ha fatto ricordare ancora una volta tutta la bellezza che può nascere dal dolore. Quando glielo confesso, lui sorride ma resta in silenzio. Alza semplicemente le braccia, mira al canestro. Poi lancia. Va a segno.
«Ti dirò una cosa. Sapendo come è andata la mia vita… rifarei quell’incidente altre mille volte».
E pensare che quella mattina di agosto, sul motorino regalato da un paio di mesi, Matteo c’era salito soltanto per andare a comperare un litro di latte. Era il 1989, aveva quattordici anni e la percezione di sentirsi invincibile. Talmente immortale che ai pericoli quel giorno nemmeno ci bada. Scansa le macchine come fossero bandierine messe a terra. Ne supera una, poi un’altra. Un’altra invece no. Quando le ruote dell’auto gli passano sopra la gamba sinistra, Matteo in un attimo non vede più nulla.
Si sveglia solo molte ore dopo in un letto di ospedale, senza nemmeno capire dov’è.
È il chirurgo che l’ha operato a raccontargli tutto. Che quella gamba gliel’hanno dovuta amputare.
«Mi sono sentito perso. Ero un ragazzino pieno di energie, ero un atleta, mi piaceva giocare a calcio. Mi alzavo la mattina e non vedevo l’ora arrivasse la sera per poter andare agli allenamenti. Per me è stata quella la perdita più difficile da affrontare, il fatto che mi venisse sottratto un sogno».
Ma una volta uscito da lì, di smettere Matteo non ci pensa lontanamente. Per ogni sabato a seguire, calza una protesi e a pallone ci va a giocare comunque. Corre fino a sfondarsi il moncone di piaghe, corre fino a sentirsi normale. Forse perché quando hai tutta la vita davanti non ci vuoi credere che la cosa a cui tieni di più venga spazzata via così, per un freno non tirato, per l’incoscienza di un istante. Non ci vuoi credere di dover convivere con quella consapevolezza. E allora per un po’ ci provi a fuggire, da una realtà che non è la tua, da quel letto in cui ti sei svegliato sì, ma dentro un corpo diverso.
Per tre anni però Matteo non lo accetta. Lui non è disabile e quella parola non la può assolutamente sentire, la scuola nemmeno vedere. Ha la testa altrove, ha la testa che va dove non deve andare. Che preferisce evadere anche nella maniera più sbagliata pur di non pensare. Arriva a provarle tutte, ma poi una sera capisce. Scappare non lo porterà da nessuna parte e ciò che lo circonda non cambierà, se non sarà lui a farlo.
Decide che deve trovare un motivo, cercare una strada per ripartire e rimettersi in viaggio.
«Avevo diciassette anni e stavo davvero toccando il fondo. Così andai a parlare col prete del mio paese, a Brescia. Fu lui a darmi il via. Non mi disse nulla di eccezionale, nulla che non avessi già sentito, ma probabilmente lo fece entrando in sintonia con me. Fatto sta che uscito da là, quella fiammella nel petto si era riaccesa».
Nel 1992 il mondo paralimpico era molto diverso da quello di oggi. Non c’era così tanta scelta. Esisteva la pallacanestro ed è lì che Matteo decide di andare.
È dentro quelle mura che a poco a poco impara a fare pace con se stesso. Glielo insegnano i compagni a ridere di sé, a ridere di nuovo. A pulire via la nostalgia e vedere che in fondo non c’è proprio nulla che non va. Nulla che potrebbe andare male per sempre se solo riprendesse ad apprezzarsi.
Lo ammette. È merito loro se lanciare una palla a canestro ha iniziato a piacergli così tanto, tanto da non smettere più, tanto da renderlo abile a sorridere alla vita. A gustarsela fino in fondo. E a riprendersi quel sogno di diventare un campione.
«In pochi anni entrai nel giro della nazionale. Fisicamente ero giovane quindi mi coinvolgevano, venivo chiamato ai raduni, ma ancora non ero pronto per le gare ufficiali. Vidi passarmi davanti gli europei del ‘95, quelli del ’97 e lo giuro, soffrivo da morire. Non desideravo altro nella vita che indossare quella maglia. Alla fine stavo rischiando di perdermi anche quelli del ’99, poi invece un compagno subì un infortunio e venni convocato io. Entrai dalla porta di servizio, ma poi non uscii più».
Da quel momento la maglia azzurra diventa la sua seconda pelle, la spinta a migliorarsi, a chiedere sempre di più a quel futuro che con sudore aveva cominciato a riprendersi.
È difficile riuscire a spiegare a parole quello che le persone sanno svelare con gli occhi.
Tre titoli europei, due Olimpiadi, un terzo posto ai mondiali sfiorato d’un soffio. E quei sei anni, da capitano. Che a raccontarli è come se in parte li stesse ancora vivendo.
Matteo non ha dubbi, insieme a tutti quanti ha scritto pagine di storia, ha riscattato la vita in un modo che nemmeno lui credeva possibile.
E oggi, che quel campione ce l’ho davanti a me, lo ascolto, l’osservo. Ha braccia forti, petto in fuori. Un’energia che travolge. Stringe di nuovo il pallone fra le mani. Allora scherzo. Gli dico che secondo me non ce la fa a mandarlo un’altra volta a canestro. Lui ride. Neppure mi guarda. Fissa quel cerchio, in alto. Poi lancia. Ci riesce.
Così glielo chiedo, se è questo il segreto. Crederci quando tutto oltre a te stesso sembra non farlo. Sorride. Annuisce.
«I limiti esistono soltanto nella nostra mente. Non ho assolutamente niente di meno rispetto a tutti gli altri. Anzi. Ho riflettuto parecchio su cosa potessi avere in più e la risposta è questa: la disabilità. È lei il mio valore aggiunto. È questo che differenzia me da un giocatore normodotato. Che io ho passato quello che ho passato, lui no».

Scrollati di dosso quella sensazione di non essere abbastanza. E smettila di guardarti allo specchio senza sentirti speciale. Lo sei. Lo sei anche con le tue cicatrici e con il sangue che cola dalle ferite.
Asciugale. Curale. Faranno male oggi, non per sempre. In fondo non sono altro che un segnale, il simbolo della battaglia che sei riuscito a vincere. Quindi ricordatelo, di abbracciarti. E di premiarti. Che quella scintilla dentro al petto la puoi riaccendere soltanto tu.

~ Translate into English ~

Look at yourself. Just stop a moment and look at yourself in the mirror.
It happens, sometimes life does this, it forces you on your knees without even asking. There isn’t necessarily a reason or someone to blame, maybe it does it for the simple reason that that’s how it must go.
Look at yourself. It’s you. And you’re breathing. Breathe. You’re alive.
Accept whatever happened and realize that the only solution you have is to face it. With your head held high. Challenge it. There’s a trick to use when you think everything is working against you. Work even harder. Try to achieve those things you can’t do anymore. No matter what, even though someone wants to convince you it’s impossible, that without a foot or two maybe you won’t be able to straighten yourself up again. Just get up. And try jumping again. Try running again. This is the only way to trick life. And you’ll start flying.
This weekend’s match has ended a little while ago.
At Fondazione Santa Lucia in Rome, floor -1, wheelchairs have stopped screeching against the gym’s wood flooring. The score boards are off, the stands are empty. Everyone has left. Everyone except Matteo. Everyone except me.
We stayed there, at the centre of one of the court’s two halves, sitting in the shadows. Almost as if in that half-light no one could find us.
Matteo Cavagnini is holding a basketball. He’s wearing the shirt of his team, the one he’s been supporting for nine years, the team he became captain of.
To see him play with his teammates reminded me once again of all the beauty that can spark from pain. When I confess this to him, he smiles but remains quiet.
He simply lifts his arms, aiming at the hoop. He throws the ball.
He makes the shot.
«I’ll tell you something. Knowing how my life went… I’d have that accident another thousand times».
And to think that in that August morning, Matteo had only gotten on his moped, a gift from a few months before, to go buy a bottle of milk. It was 1989, he was fourteen and felt invincible. So immortal that he didn’t even consider the dangers that day. He avoids cars as if they were small flags on the ground. He overtakes one car, then another. Not the next one. When the car’s wheels pass over his left leg, in a moment Matteo’s world goes black.
He only awakes after several hours in a hospital bed, without even understanding where he is.
It’s the surgeon who operated on him who must tell him everything. That they had to amputate his leg.
«I felt lost. I was a kid full of energy, I was an athlete, I liked playing soccer. I got up in the morning and couldn’t wait for it to be evening to go train. That loss was the most difficult one for me to face, the fact that my dream had been taken from me».
But once he got out of there, Matteo didn’t think for a second about stopping. Every Saturday after that, he wears a prosthesis and goes to play soccer anyways. He runs until his stump is covered in sores, he runs until he feels normal.
Maybe because when you have your whole life ahead of you, you don’t want to believe that the thing you want the most has been wiped out like that, for not hitting the brakes once, for the rashness of a single moment. You don’t want to believe you’ll have to live with that knowledge. So for a while you try to escape, from a reality that isn’t yours, from that bed you woke up in, yes, but in a different body.
For three years though, Matteo can’t accept it. He’s not disabled, he can’t stand hearing that word, he can’t even look at the school. His head is somewhere else, it’s going places it shouldn’t. Rather than thinking it would evade in the most wrong way. He tries everything, but one night he understands. Running from himself won’t get him anywhere and his surroundings won’t change, if he doesn’t change himself.
He decides he needs to find a reason, to find a road to start travelling again.
«I was seventeen and I was really touching rock bottom. So I went to speak to the priest in my town, in Brescia. He was the catalyst for me. He didn’t say anything exceptional, nothing I hadn’t heard before, but he probably did it while in tune with me. Anyhow, once I left, that little flame in my chest was alive again».
In 1992, the Paralympics were a very different world from today. There wasn’t as much choice. Basketball existed, and that’s where Matteo chose to go.
It’s inside those walls that little by little he learns to make peace with himself. His teammates teach him to laugh about himself, to laugh once more. To wipe away the nostalgia and see that, in the end, there’s really nothing wrong. Nothing that could go wrong forever, if only he learned to appreciate himself again.
He admits it. It’s thanks to them if he started liking throwing a basketball so much, so much he never stopped. Enough to make him skilful at smiling at life. At enjoying it thoroughly. And to take back that dream, of becoming a champion.
«A few years later I entered the National circles. Physically I was young so they involved me, they called me to the gatherings, but I wasn’t ready for the official competitions. I watched the European Games pass me in 1995 and 1997 and I swear to you, I suffered so much. I wanted nothing more from life than to wear that shirt. In the end I risked missing the Games of 1999 as well, but a teammate had an accident and I was called in. I entered from the back door, but I never left».
It’s difficult to explain in words what people can reveal with their eyes. From that moment, the blue shirt became his second skin, the motivation to keep improving himself, to ask for more and more. More from that future he’d started taking back with his sweat.
Three European titles, two at the Olympics, a third place at the World Championships missed by a hair. And those six years as captain. As he talks about them it’s almost as if he’s still living in them.
Matteo has no doubts, together with everyone he wrote pages of history, he reclaimed life in a way he didn’t believe possible himself.
And today, as I have this champion in front of me, I listen to him, I watch him. He has strong arms, his chest bulging. Overwhelming energy.
He squeezes the ball in his hands again.
Then I joke. I tell him I don’t believe he can make the shot again.
He laughs. Without even looking at me. He stares at that hoop, up high. He throws.
He makes it.
So I ask him if that’s the secret. To believe when everything except for yourself seems to not believe.
He smiles and nods.
«Limits only exist in our minds. I have absolutely nothing less compared to everyone else. As a matter of fact, I thought hard about what I might have that others don’t, and this was my answer: my disability. It’s my value added. It’s what differentiates me from an able-bodied player. I lived through what I lived through, he hasn’t».
Shake off that feeling of not being enough. And stop looking in the mirror without feeling special. You are. You are even with your scars and blood dripping from your wounds. Dry them. Cure them. They’ll hurt today, not tomorrow, not forever. After all they’re nothing but a sign, the symbol of the battles you won. So remember, hug yourself. Award yourself. Because you’re the only one who can light that little flame in your chest again.