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Sull’altra sponda del Nilo

Ci sono momenti in cui perdi qualcosa. A volte qualcuno. A volte occasioni. E ci sono momenti in cui perdi te stesso. Non ti trovi, come quando non trovi un paio di occhiali e poi ce li hai in testa. Ti perdi allo stesso modo. Sei lì, senza sapere esattamente dove.
È allora, solo allora, che devi fermarti. Sarai solo e dovrai guardarti dentro. Dovrai cercarti, per un po’.
Io e Francesco siamo saliti sul tetto. Ci siamo seduti ad osservare il cielo. Da lassù, distanti, in alto, sembra quasi di poter guardare la vita dall’esterno. I rumori sono attenuati.
Sulla faccia, il sole caldo del tramonto. Là, in cima, è come se le parole fossero più facili da pronunciare, più leggere.
«Oggi, esattamente un anno fa, salivo sull’aereo che da Sohag mi riportava in Italia».
Sul calendario l’Egitto è una storia lontana ormai dodici mesi, ma non nella sua testa. I ricordi affiorano e sono vivi come una ferita aperta. Anche se non sanguina più. Brucia ancora, quello sì. Soprattutto quando torno a chiederglielo.
«Non ero pronto…» mi risponde.

Poi si interrompe, quasi a non voler finire quella serie di pensieri. Ma ci riprova, prende fiato e ricomincia.
«Lì era tutto diverso. Mi hanno colpito le differenze, non era felice scoprirle. Un conto è leggerle o sentirle raccontare, un altro è viverle».
A un tratto, le frasi spezzate, le pause, le parole sospese rompono la diga di emozioni che diventa fiume in piena. Francesco racconta tutto quel che ha visto dentro e fuori da quell’ospedale, in quella città che sembrerebbe dimenticata dall’uomo. Dimenticata persino da Dio.
Lì i bambini muoiono in silenzio, non vanno a scuola, lavorano per strada a mani e piedi nudi. Fanno gli imbianchini, i lavavetri, i lustrascarpe. Vendono acqua, fazzoletti o chiedono l’elemosina. Ma la verità più cruda, quella che più annienta, è che se non comprerai qualcosa da loro, probabilmente non mangeranno. Perché nel Paese il lavoro minorile è illegale, ma quando mancano i soldi le famiglie mandano i propri figli a sostenerle. E non importa l’età, a sette, dieci anni, impugneranno seghe elettriche per dodici ore al giorno, usciranno di casa alle sei del mattino e saranno autisti a bordo di tuk tuk. Un taxi a tre ruote e senza porte che molto spesso li ucciderà.
Assurdità che Francesco ha visto anche nell’ospedale in cui era arrivato da studente, tirocinante al secondo anno di medicina. Dal primo giorno il medico gli ha messo in mano un paio di forbici e un filo per le suture. Gli ha detto cuci. E così ha fatto, anche se aveva solo vent’anni.
«Mi trovavo nell’unico ospedale pubblico con i reparti di chirurgia plastica e neurochirurgia. Era affollatissimo e quel che più mi faceva pensare era che chi arrivava non poteva avere le cure e le condizioni per guarire. La gente moriva per cose stupide, cose per cui in Italia non si muore. Mi ricorderò per sempre gli occhi di una bambina di appena due anni. Si chiamava Farah. Aveva ustioni su oltre il sessanta per cento del corpo; la madre l’aveva immersa in un catino d’acqua bollente per lavarla. Le ho fatto visita tutti i giorni della mia permanenza e non c’è stata volta in cui non l’abbia sentita piangere. Un paradosso, dal momento che Farah in arabo significa felicità. Leggevi nei suoi occhi la sua innocenza. Non aveva colpa per essere lì. Non aveva colpa per essere nata in un posto così».
Francesco si è lasciato travolgere, sconvolgere da quello che vedeva quotidianamente. I bambini morivano per ignoranza culturale e questo non riusciva ad accettarlo.
“Non era pronto” e ad un certo punto ha sentito il bisogno di tornare a casa, a Brescia. Doveva evadere da tanto dolore, prendersi del tempo per riflettere, metabolizzare. Ma se in Egitto poteva aspettare l’aereo di ritorno, da quei pensieri non poteva allontanarsi con un semplice volo.
«Mi sembrava di vivere una guerra dentro che nessuno poteva capire. Avevo la consapevolezza di essere un privilegiato solo per il fatto di essere nato dall’altra parte del Mediterraneo e questo riusciva a zittirmi per intere giornate. Ma è giusto così. Mi vergognerei di me stesso se non provassi queste cose. E mi vergognerei di me stesso se provassi ad evadere da questi pensieri».
Del resto, sono gli occhi con cui guardi il mondo a fare tutta la differenza. Puoi cercare di migliorare le cose o lasciare che ti scivolino addosso.
«Non ha cambiato nulla essere lì, se non me stesso. Provare a fermare il Nilo è una cosa impossibile, eppure da quello stesso Nilo ti puoi abbeverare o rinfrescare. Così anche l’Egitto e la condizione egiziana. Impossibili da mutare, almeno per me… forse ci vorranno decenni, forse secoli. Ma in quella realtà io mi sono abbeverato, ho trovato il senso di quello che voglio fare. Sono sempre più convinto che lo studio della medicina sia la mia strada. Sceglierò di essere un certo tipo di medico, un medico che si lascerà appassionare dalla meraviglia della vita ancora per lungo tempo, un medico che farà il suo lavoro con il reale desiderio di aiutare. Vorrei poter risarcire l’uomo ferito e menomato dalla violenza dei suoi simili. E farò in modo di realizzarlo questo desiderio, che sia con Medici senza frontiere, che sia per conto mio, che sia lontano da casa in Paesi in guerra o in Italia. Metterò pace in ogni scelta. E, sinceramente, penso di aver iniziato a farlo già da un po’».

Non lasciare che la vita ti indurisca. O che il cuore, per paura, si atrofizzi. Anche Francesco, sulla sponda dell’eterno fiume Nilo, si è seduto e ha pianto. Ha accettato che il sole continuasse a tramontare su Sohag, perché così ha sempre fatto e sempre farà. Ma ha capito anche che un altro sole risorgerà. E scalderà ancora. Con la consapevolezza, questa volta, che un raggio di luce splende ancora, lì, dove si è perso e poi ritrovato. È lì, in fondo, che devi cercarti. Dove c’è il cuore. Perché magari perderai le parole, per un po’, ma la speranza no. Quella mai.

~ Translated into English ~

There are moments in which you lose something. Sometimes someone. Sometimes opportunities. And there are moments in which you lose yourself. You can’t find yourself, just like you can’t find a pair of glasses on top of your head. You can lose yourself in the same way. You are there, without knowing exactly where.
Then and only then, you have to stop. You’ll be on your own and you’ll have to look inside yourself. You’ll have to find yourself, for a while.
Francesco and I climbed up the roof. We sat down looking up to the sky. From up there, distant, high above, it seems like watching life from the outside. The sounds are muffled. On our faces, the warmth of the setting sun.
Up there it’s as if words were easier to say, lighter.
«Exactly one year ago, today, I boarded the plane that from Sohag brought me back to Italy».
On the calendar, Egypt is a story twelve months away now, but not in his head. Memories come back and they’re alive like an open wound. Even though it doesn’t bleed anymore. It still burns.
Especially when I ask him about it.
«I wasn’t ready…» he answers.
Then he stops, almost as he didn’t want to follow through those thoughts. But he tries again, takes a deep breath and starts over.
«Everything was different there. I was struck by the differences. It wasn’t pleasant noticing them. One thing is reading about them or listening to people talking about them, another is living them».
All at once, the fragmented sentences, the pauses, the unfinished words break the dam of emotions which becomes an overflowing river. Francesco tells everything he saw inside and outside the hospital, in that town that’d seem forgotten by men. Forgotten even by God.
Kids there die in silence, they don’t go to school, they work in the street bare hands and bare feet. They’re house-painters, window-cleaners, shoe-shiners. They sell water, tissues or beg for money. But the most brutal truth, the most devastating, is that if you don’t buy something from them, they probably won’t eat.
Child labour is illegal in the Country, but when there’s not enough money, families send their children to work to survive. And regardless of their age, at seven, ten years old, they will hold a chainsaw for twelve hours a day, they will leave home at six in the morning a will be tuk-tuk drivers. A three-wheeler taxi without doors that will often kill them.
Absurdities that Francesco witnessed also in the hospital where he arrived as a student. A second year medical school trainee. Since the first day, the doctor gave him a pair of scissors and a suturing thread and told me to sew. And so he did although he was only twenty year old.
«I was in the only public hospital with a plastic surgery and a neurosurgery ward. It was crowded and what got me thinking the most was the fact that those arriving couldn’t get the treatment and the necessary conditions to get better. People died from stupid, easily preventable causes, from which you don’t die in Italy. I will always remember the eyes of a two-year-old little girl. Her name was Farah. She had burns covering more than 60% of her body; the mother had bathed her in a sink with boiling water. I visited her every day of my stay and there wasn’t a time that I didn’t hear her crying. A paradox, since Farah in arabic means happiness. You could read in her eyes her innocence. It wasn’t her fault she was there. It wasn’t her fault she was born in a place like that».
Francesco let himself be overwhelmed and shattered by what he saw daily. Kids died from cultural ignorance and he couldn’t accept this.
“He wasn’t ready” and at some point he felt the need to go back home to Brescia. He had to escape all that suffering, take time to think and metabolize. Although in Egypt he could wait for a return flight, he couldn’t leave those thoughts behind by simply getting on a plane.
«I felt like I was living a war inside that nobody could understand. I was aware I was privileged just because I was born on the other side of the Mediterranean and this could hush me for days. But it’s all right. I would be ashamed of myself if I didn’t have these feelings. And I would be ashamed of myself if I tried to escape these thoughts».
After all, it’s the eyes through which you see the world that make all the difference. You can try to make things better or you can let them roll off your back.
«Being there didn’t change anything, other than myself. Trying to stop the river Nile is impossible, still from that same river you can quench your thirst and refresh yourself. And so it is about Egypt. Impossible to change, at least for me… maybe it will take years, maybe centuries. But in that reality I quenched my thirst, I found the real meaning of what I want to do. I’m more and more convinced that medicine is my path. I’ll choose to be a certain type of doctor, a doctor that will be passionate about the wonders of life still for some time, a doctor that will do his job truly wanting to help. I wish I could repair the man wounded and maimed by the violence of other men. And I’ll try my best to make this wish come true, be it with Doctors Without Borders or on my own, far from home in war-torn Countries or in Italy. I will put peace in every choice I make. And I honestly think I have already started doing so for a while now».

Don’t let life harden you. Or that your heart, out of fear, atrophies. Francesco as well, by the eternal river Nile sat down and wept. He accepted that the sun will continue to set over Sohag because it always has and always will. But he realized that another sun will rise. And will shine warm again. This time with the awareness that a ray of light shines within him, there, where he lost and found himself again. Deep there, you have to look for yourself. Where the heart is. For you might lose the words for some time but you can never lose hope.