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Voglio fare tutto

C’è che il bene non è un qualcosa che ti puoi tenere dentro, solo per te. Devi farlo uscire, liberarlo, condividerlo, perché a lasciarlo lì, sottopelle, al caldo, non serve proprio a niente.
Devi dedicarlo, respirarlo, e circondarti la vita d’incontri. Che alcuni sai, ti si siedono accanto senza neanche conoscerti, ti si appoggiano al cuore senza trucchi, senza abbellimenti.
E a quel punto ci pensano loro a fartelo capire, a dirti che non hai capito nulla se ti tieni tutto dentro, se quello che hai di buono in fondo poi non lo regali. Ci pensano loro a spiegartelo, che a vivere di pietra alla fine è vero. Non vinci mai.

Roma, quartiere Quadraro.
Tra gli alti palazzi residenziali, in fondo, in una via non molto popolata, è fisso da anni un ristorante. Ha il simbolo di un fiore che spicca sulla strada, il cancelletto spalancato già dal primo pomeriggio.
Dentro, sulle pareti dipinte da colori tenui, sono appese le foto di clienti famosi, ci sono le immagini dei ragazzi che lavorano nel locale. Vicino all’entrata, una grande lavagna affissa al muro parla da sola. Chi viene qui viene per stare in famiglia. L’hanno scritto col gesso a lettere maiuscole. Me l’ha ripetuto anche il direttore non appena sono entrata.
Manca un quarto d’ora alle cinque e in sala stanno allestendo i tavoli per la sera, non c’è ancora nessun cliente. Mentre passo davanti alla cucina, mi accorgo che la porta è aperta, butto un’occhiata all’interno. Saluto.
È Emanuele a ricambiare. In un attimo lascia quello che sta facendo e mi raggiunge. Mi aspettava. E io cercavo lui. Indossa una giacca da chef ed un cappello in testa. Ha ventotto anni, quasi ventinove, da cinque è aiuto-cuoco alla “Locanda dei Girasoli”.
Era da un po’ che non incontravo due occhi così, di quelli che sanno sorridere anche se non ti hanno mai vista prima.
Quando gli chiedo se posso fargli alcune domande, lui accetta, si guarda. Vuole sapere se può restare vestito com’è.
Annuisco, ho gli occhi che sorridono anch’io.
«Il lavoro per me è lavoro» è tra le prime cose che mi dice. «Non è un divertimento, è una cosa seria per insegnare agli altri come ci si forma dentro a un posto come questo».
Mi racconta di aver frequentato la scuola alberghiera e un programma di tirocini post-diploma in diversi alberghi e ristoranti di Roma. Poi, dal 2013, grazie al progetto OPEN ha potuto ricevere un primo contratto da tirocinante e poco dopo firmare quello indeterminato per la Locanda.
«Ho seguito il programma con altri ragazzi e abbiamo fatto questa cosa per far vedere che possiamo avere un posto di lavoro. All’inizio era un’esperienza, poi mi hanno richiamato, ho fatto un colloquio e sono stato assunto. Mi trovo bene qui. Subito non conoscevo nessuno di loro, ma piano piano ho fatto amicizia con Viviana, con Simone che sono qui da dieci anni… mi trovo bene anche con Ugo che è il direttore. Mi sacrifico sempre per gli altri e per mandare avanti questo locale».
Siamo seduti uno di fronte all’altra, Emanuele parla, gesticola con un accento romano che riempie la stanza. Che scalda l’aria, l’anima. Ammette che cucinare è da sempre una sua passione.
«Ho preso da mia nonna, quando ero piccolo vedevo lei che preparava cose buone, la pasta fatta a mano – poi si interrompe, alza le dita al cielo – ormai… non ci sta più, però io porto avanti la mia vita. Vengo qui, penso a lei».
Ora sono io che non so più che devo chiedere, ma poi scherzo. Lo provoco. Mi faccio dire qual è il suo di piatto forte. Poi, ad un tratto, arriva una confidenza che vuole farmi. Mi dice di essere fidanzato con Moira, che lei è più grande e che insieme parlano sempre del lavoro, del futuro. A Emanuele ride la voce.
Allora gli pongo la stessa domanda che faccio di solito, gli chiedo che cosa ci vede in quel futuro. E penso che quando qualcuno è disposto a confidarti un sogno, è un pezzetto di sé che ti regala.
«Io voglio aprire un locale tutto mio. Vorrei cucinare, vorrei gestirlo, vorrei fare tutto».
Poi si ferma. Sta in silenzio, le labbra strette per un paio di secondi come se dovesse aggiungere altro. Ma non lo fa. Non serve.
Ci penso, ha ragione lui. Può fare tutto.

E allora è giusto crederci in quei colori nuovi, unici, diversi da sé. Che tanto poi ci pensano certe storie a fartelo capire, che non esiste nulla di minore. Minore poi di cosa, minore poi di chi. Ed è bene perdonarli, quelli che non riescono a sentirle certe sfumature. Non è colpa tua, non è colpa di nessuno se sono abituati a vivere con il bene incastrato fra le ossa. Loro. Ma tu, tu no.
Tu continua a liberare tutto ciò che hai da dare. Fallo uscire e fallo fino a sentirti leggero, fino a fare posto e poi riempirti il petto di emozioni. Che i cuori vuoti alla fine si sa, non pesano nulla. Quelli pieni invece sì. Loro vincono sempre.