Sono gli ultimi giorni dello scorso gennaio quando Milena inizia a sentire la voce diversa, più rauca. Il freddo invernale le avvolge solo metà del viso e i battiti sembrano impazziti.
Dopo sedici anni ha deciso di lasciare l’azienda grafica in cui lavora e tutti associano i sintomi a un forte periodo di stress. Deve stare tranquilla. Eppure nelle settimane di febbraio la pressione si alza, il cuore pulsa fuori controllo e i movimenti sembrano progressivamente peggiorare. Anche mangiare è diventato un problema, il cibo pare fermarsi in gola, creare un nodo e scendere a stento.
È il padre allora ad accompagnarla da un amico otorino che durante la visita intuisce ben presto qualcosa di grave. Una delle due corde vocali è completamente paralizzata.
Il 9 di marzo la risonanza magnetica seziona millimetro per millimetro, strato per strato l’intero cervello di Milena, sino a mettere in luce una lesione nel tratto che connette l’encefalo al midollo. Che sia nuova o vecchia non ha nessuna importanza: non c’è tempo da perdere.
Milena chiama immediatamente la neurochirurgia di Verona e il destino vuole che si sia appena liberato un posto per il pomeriggio seguente.
«Quando la dottoressa ha iniziato a parlare avevo il panico addosso. Si trovava in un punto inoperabile e fu una vera doccia fredda. In quel momento ricordo di aver sentito una scarica dalla testa ai piedi. Toglierlo era infattibile e l’unica strada da percorrere era tentare un prelievo bioptico cercando di fare meno danni possibili. A quel punto sono tornata a casa e ho continuato a fare la vita di sempre, fino a che ho potuto, perché poi, nel giro di tre settimane, non ero più io. Mi guardavo allo specchio ma Milena non c’era più».
I giorni che la separano dall’intervento sono un tempo infinito in cui le condizioni si aggravano drasticamente. La testa gira, deforma, stravolge e tutto attorno sembra roteare impetuosamente come in un vortice. Dormire è impensabile e camminare ormai quasi impossibile.
La seconda risonanza mostra che la lesione si è più che triplicata.
Il 6 aprile Milena è in sala d’attesa. Prima di essere chiamata per la biopsia, prende tra le braccia i due genitori che sono con lei e li stringe più forte che riesce.
«Ero veramente convinta che non li avrei più rivisti. Li ho abbracciati e ho detto loro grazie, grazie, per tutto quello che avete fatto per me nella mia vita».
Quando viene portata in sala è ancora mattino presto; saranno i medici solo molte ore dopo, alle dieci di sera, a chiamare la sorella per dire che Milena è stata trasferita in terapia intensiva da circa un’ora. Lì ci resterà cinque giorni prima di trascorrerne altri venti in reparto.
Dall’intervento Milena esce praticamente indenne, ha un tracheostoma per respirare e un sondino nasogastrico che le permette di mangiare.
«I primi due giorni ero spaventata… poi però ho voluto essere il più possibile autonoma. Ho imparato a medicarmi da sola, poi a scendere dal letto, sedermi in carrozzina, andare in bagno. Così è iniziato il mio progresso, facevo tutto da sola, ma soprattutto scherzavo. Con me ridevano tutti, mi chiamavano Caterpillar, ero pronta a spaccare il mondo. Ricordo un pomeriggio in cui ho trascorso un paio d’ore con un’infermiera. Ci siamo commosse raccontandoci il rapporto molto simile che abbiamo avuto tra padre e figlia… ed è proprio questo il bello della malattia, è che ti connetti in un’altra dimensione. Tu sei in un’altra dimensione, ti colleghi alle persone in maniera diversa, trovi quelle affini a te e non pensi più alle cose come le pensavi prima».
Una volta dimessa Milena sa che il percorso non è finito. Ad attenderla ci sono altre sei settimane di terapie. Trenta sedute di radiazioni per cercare di rallentare, controllare, contrastare quella parte di lesione che ancora è rimasta. Il tumore che ha è maligno, aggressivo e viaggia veloce.
«Non poter mangiare dalla bocca è stata una grande sofferenza, anche se sapevo che era un rischio che non si poteva correre. Quando ho iniziato la radioterapia mi è stata posizionata la PEG, un tubo per mangiare e bere solo dallo stomaco, e là sono andata in crisi, mi sono lasciata andare ed è stato devastante. Se penso a quel periodo ricordo tutto nero, avevo perso molti chili, non volevo alzarmi dal letto, non volevo vedere nessuno. Ero intrattabile, spenta… forse, dopo le prime sedute, avrei dovuto notare dei risultati. Volevo guarire, volevo funzionasse subito, ma questo esisteva solo nella mia testa perché me l’avevano detto tutti: aspetta di finire. E infatti, avevate ragione».
Me lo ricordo quel giorno di giugno, quando io e Milena ci siamo sedute una di fronte all’altra in uno degli ambulatori dell’ospedale. Era il 30 maggio quando l’ho accolta in ricovero e durante le terapie non c’è stata volta in cui non sia andata a salutarla per sapere come stava.
In radioterapia ha dovuto trascorrere il suo quarantasettesimo compleanno, ha passato anche quel concerto di Vasco a cui aveva in programma di andare. Quel nero glielo si poteva leggere sul viso è vero, ma negli occhi mai. Milena quel giorno mi ha parlato di sé, dei suoi figli, delle sue paure. Poi mi ha fissata dritta in volto e con tutta la forza che aveva mi ha detto una cosa. Una soltanto. Io voglio vivere.
E non c’è niente di più intenso di quando torni a sentire la vita più forte. Arriva un momento in cui decidi di reagire o di lasciarti andare per sempre.
Le settimane successive sono state una vera rinascita. Ogni giorno dal termine delle radio, Milena vede accadere un miracolo.
Riparte da un cucchiaino di latte alla volta, comincia a mangiare di nuovo, sempre di più, ancora, tanto da togliere la PEG, fino a chiudere il tracheostoma. Riprende a camminare, a sentirsi la voce, ora che la corda le è tornata a vibrare. Ma soprattutto Milena rimette mano a quelle bozze, sui grafici di sempre e a cui tanto era mancata.
«A volte faccio ancora gli stessi errori di arrabbiarmi e di non lasciar correre, però adesso ci rifletto. Rifletto sul fatto di avere poco tempo. Quest’esperienza deve avermi insegnato a non fare come prima, a non aspettare gli altri per fare le cose, a non aspettare di chiedere scusa. Non aspettare, che è banale ma non c’è cosa più vera. Tutti sappiamo che possiamo morire da un giorno all’altro, ma quando io dico sto bene, so che “lui” è ancora lì. Ma anche io per ora sono qua. Non so se vincerò la guerra ma lotterò per portare a casa più battaglie possibili. Il guerriero della luce è tornato ed ha imparato la lezione».
Non sempre la vita va come immagini, a volte succede. Fa la sua strada e non spiega un perché. E tu precipiti, nell’abisso dei pensieri, senza nessuno a cui dare la colpa, senza un motivo a cui aggrapparti. Qualcuno con cui prendertela.
È laggiù che dovrai fidarti della tempesta. Farà così male da portarti via tutto, ma le cose importanti no. Loro restano. Tu entraci, guardati dentro e poi torna a galla. Non uguale a prima però.
Hai imparato a colpire la vita più forte di come sa fare lei. Ora il futile diventa superfluo e sopra quel male sai passarci leggero. Hai imparato a riempirlo quel buio, di luce, di sorrisi. E tu ancora rinasci. E ricominci, a ridere. Sorridere e vivere. Così, come in fondo, non avevi fatto mai.